Recensione di Mario Aletti

(publiée ici avec son autorisation)

 A. Vergote, Humanité de l’homme, divinité de Dieu, Éd Du Cerf, Paris, 2006

Psicoanalista, filosofo e teologo, riconosciuto padre fondatore dell’attuale psicologia della religione in Europa, Antoine Vergote condensa, in quest’ultima opera, il frutto maturo e l’apertura di prospettive del suo lungo lavoro intellettuale (come docente di Antropologia filosofica e di Psicologia della religione a Lovanio) e della pratica clinica come psicanalista (è stato tra i protagonisti della Société française de psychanalyse e tra i fondatori della École belge de psychanalyse). Il lavoro, presentato come una ricerca interrogante e partecipe intorno al mistero “uomo” e al suo rapporto con il mistero “Dio », si colloca in continuità con l’interesse costante mostrato dall’autore per la prospettiva dell’antropologia teologica, evidenziato particolarmente nei saggi raccolti in italiano in La teologia e la sua archeologia (Fossano, Esperienze, 1974), e nei più recenti volumi Tu aimeras le Seigneur ton Dieu (Paris, Du Cerf, 1997) e Modernité et Christianisme (Paris, Du Cerf, 1999). Il titolo esprime chiaramente la divisione in due parti del volume e preannuncia la tesi di una distinzione tra la conoscenza sull’apertura dell’uomo al divino, possibile all’antropologia filosofica, e la riflessione sull’esperienza della fede cristiana, che è basata sull’autorivelazione di Dio.

 

La prima parte mostra come i processi dell’ominizzazione, nell’intreccio tra natura e cultura, orientino la ragione e il desiderio dell’uomo a un “divino”, che però rimane generico e non meglio identificabile. L’antropologia filosofica, che oggi non potrebbe prescindere dalle moderne scoperte delle cosiddette scienze umane (etnologia, psicologia, psicoanalisi, sociologia, linguistica etc.), riconosce che il “religioso” fa parte della natura trasgressiva dell’uomo come essere-al-mondo. “Essere di natura, di cultura, di religione” l’uomo è l’unico vivente che parla, desidera, odia e ama, che è capace di accettazione e di negazione, che crea una cultura, e leva il suo sguardo di là dal mondo verso l’abisso inesplorabile del divino (p. 23). Perciò, “la risposta alla domanda sulla natura dell’uomo è paradossale: la natura dell’uomo è di trasformare ciò che vi è di naturale in lui” (p. 119). Le “scienze empiriche” quando pretendono di descrivere l’uomo come parte dell’universo naturale si scontrano con un uguale paradosso: è l’uomo stesso che fa quelle osservazioni scientifiche e formula quelle teorie. L’essere umano si pone dunque come un “a parte” nell’universo naturale. Il mondo ha un senso solo se un essere che non appartiene soltanto alla natura, gli attribuisce un senso, una finalità. Secondo Vergote, proprio gli interrogativi che nascono dall’osservazione del mondo naturale possono predisporre l’uomo ad ascoltare la parola dichiarativa di Dio del monoteismo biblico; Dio invisibile agli occhi della pura ragione, e pur Essere intravisto, desiderato, appellato nel cosmo naturale.

 

Per la costruzione di una tale visione antropologica sono per Vergote imprescindibili alcuni elementi essenziali delle scoperte psicoanalitiche. Come è noto, il rapporto tra fede e psicoanalisi ha intrigato molti autori, ed è stato fonte d’ispirazione e oggetto di trattazione per molti teologi, tra fascinazione e contrapposizione, lunghe discussioni epistemologiche e frettolose proposte applicative (esercitate tanto nella teoria che nella prassi pastorale). Troppo spesso il confronto è stato denso di luoghi comuni e segnato da derive ideologiche e pregiudizi, sull’uno e sull’altro fronte del “dialogo” tra psicoanalisti e teologi. In questo libro, al contrario, la duplice competenza disciplinare e la duplice appartenenza istituzionale di Vergote si esplicano in un rigore critico che non transige sulle esigenze della ragione di un uomo che vuol comprendere, sia come credente-pensante, sia come psicoanalista che, pur profondamente ispirato al pensiero di Freud e di Lacan, non teme di discostarsene, laddove lo spirito critico non si acquieti.

 

Per Vergote, che prende le distanze dal dualismo cartesiano e dalle sue ricadute nel pensiero contemporaneo, la realtà psichica non è riducibile né al corpo organico, né allo spirito; essa è piuttosto istanza di mediazione tra i due. Mediazione complessa, intrinsecamente conflittuale (l’aggettivo sta a dire di una tensione dialettica costitutiva: il conflitto, per la psicoanalisi, è esperienza di costruzione vitale). Vergote riprende qui la categoria di corpo psichico, da lui proposta da tempo. Il corpo psichico è il corpo vissuto, quale si struttura a partire dal corpo libidinale. Quest’ultimo risulta dal funzionamento di un inconscio originario (qui un’importante presa di distanza da Freud!) retto dal principio del piacere e dispiacere. “Nella sua esperienza primaria delle cose e delle persone, lo psichismo è molto più di un essere vivente che ha dei bisogni. Ciò che è del tutto specifico in lui è che, fin dall’inizio, è animato dalla “libido”, una tensione verso il piacere e un’opposizione al dispiacere che fanno sì che le funzioni elementari abbiano una qualità propriamente umana di piacere o di dispiacere. […] L’uomo come essere-al-mondo e essere-all’altro si costituisce così progressivamente attraverso una storia personale di incontri felici e infelici. La costruzione di se-stesso come persona si attua attraverso la formazione simultanea di legami di attaccamento segnati dal piacere, e di azioni di evitamento di rapporti spiacevoli”(p. 333). Il primo momento, la prima stratificazione di tale corpo psichico consiste di indefinite impressioni strutturanti, quelle che, con Freud, anche Vergote chiama le rappresentazioni-cose: contenuti psichici che hanno la natura di cose e che vi sono così vicine che imprimono il loro sigillo nello psichismo. Infatti, l’inconscio originario non è strutturato come un linguaggio (qui una presa di distanza da Lacan). Esso è costituito da rappresentazioni-cose, impressioni o contenuti psichici ancora senza nome, perché non raggiunti dal linguaggio. Ma queste rappresentazioni sono fin dall’inizio organizzate e dirette dalla libido: principio di ricerca del piacere e allontanamento dal dispiacere. Tutto questo non comporta un determinismo che neghi spazio alla libertà: dice delle condizione dell’agire umano, non dei suoi condizionamenti. La psicoanalisi libera l’uomo; non enucleandone lo spirito dal suo radicamento nella corporeità, così come si potrebbe immaginare di liberare un animale dalla gabbia. L’unità complessa e conflittuale dell’essere umano si struttura nei rapporti tra il corpo organico, la realtà psichica inconscia e lo spirito. Contro ogni riduzionismo, di tipo neurobiologico o di tipo socio-costruzionista, ma anche contro le derive metaforiche del linguaggio psicologico, Vergote ribadisce che il corpo psichico non è un concetto teorico, o una rappresentazione soggettiva dello psichismo. Il corpo psichico è la psiche, è il soggetto di ogni attività psichica, comprese le più elevate, come l’amare, il riconoscere Dio, il pregare.

 

Soggetto incarnato, l’uomo è anche soggetto di desiderio. E il desiderio dice della relazionalità intrinseca alla genesi e al divenire del soggetto e rimanda all’amore. L’amore è un “desiderio sedotto”. Si ama e si desidera qualcosa perché appare desiderabile. Qui l’osservazione di Vergote sull’amore umano si colloca in una prospettiva fenomenologica, intesa a cogliere le cose nella loro intenzionalità specifica e, insieme, in una prospettiva psicoanalitica, attenta all’interagire delle dinamiche inconsce con quelle consce. La capacità d’amare è caratteristica specifica della natura umana, come il linguaggio e la parola e si struttura lungo la storia personale. Nasce come una risposta d’amore all’amore ricevuto, nel contatto col corpo materno, il suo calore, il suo nutrimento. Riferendosi al Freud di Introduzione al narcisismo (con qualche importante correzione, da lui già proposta nel volume La psychanalyse à l’épreuve de la sublimation, Ed. Du Cerf, 1997) e al modello dell’“oggetto transizionale” di Winnicott, Vergote sostiene che il bambino impara fin dall’inizio ad amare se stesso attraverso l’offerta d’amore che riceve e identificandosi con colei che lo ama. Come eredità della sua genesi, l’amore umano conserva il desiderio di essere amato e la capacità di accettare l’amore dell’altro, pur all’interno della complessità strutturale del desiderio, tra tendenze captative e fusionali e riconoscimento dell’alterità dell’altro. Caratteristiche che, in quanto profondamente radicate nel soggetto, entrano in gioco anche nell’intersoggettività teologale (vale a dire nei processi di risposta del credente alla Parola di Dio che lo interpella) e che conferiscono un carattere dinamico e conflittuale alla vita di fede, che richiede una profonda trasformazione del desiderio del credente.

 

La rivisitazione del concetto freudiano di sublimazione (di grande spessore teorico, diversamente da quello di certo antifreudismo degli stenterelli) offre una prospettiva non dualista e non contrappositiva dei concetti di pulsione e cultura. Di conseguenza, i fenomeni culturali non sono più considerati come sublimazione e canalizzazione delle pulsioni (secondo un modello patologistico della sublimazione) perché la pulsione è pensata fin dall’inizio, nel modello del corpo libidinale, come orientata all’intersoggettività umana e dunque alla cultura. Così la sublimazione ha in sé qualcosa di creativo ed autoimplicativo, come l’atto di parola nella cura: parola performativa (i termini sono quasi sinonimi in Vergote) che instaura un legame, che è irriducibile ad una prevedibile catena di cause ed effetti e che è libera dalle pressioni della volontà dell’altro. Il modello della psicoanalisi come parola performativa, che realizza ciò che annuncia, permette a Vergote di considerare anche la fede cristiana come parola performativa in risposta alla Parola di Dio che è , a sua volta, performativa, “creatrice di vita effettiva, sostanziale” (p. 294).

 

La seconda parte del volume studia i percorsi del possibile trapasso del sentimento del divino (il cosiddetto “religioso naturale”) alla fede nel Dio personale rivelato da Cristo, interrogando le testimonianze di questa rivelazione. Il discorso, che nella prima parte si attestava entro l’orizzonte dell’antropologia filosofica, si sposta verso l’ambito dell’antropologia teologica. La filosofia non conosce il Dio personale, creatore e fonte di felicità. . Ma questa stessa filosofia insegna che, “per la sua natura paradossale, l’uomo è capace di intendere questo Dio quando egli viene a sorprendere la sua ragione e il suo desiderio” (p. 122).

 

La “divinità di Dio” è perciò comprensibile solo a partire dalla Sua autorivelazione. Di qui le pagine dedicate al monoteismo biblico come rivelazione e alleanza con un popolo (Il monoteismo è “la credenza in Dio che si è rivelato come il Dio unico e che rivelandosi, si fa Dio per l’uomo”, p. 288), a Gesù che annuncia e rende presente il Regno di Dio, alla fede della prima comunità cristiana, (esemplare e prototipica della fede del credente anche oggi) “che ha identificato come “fede” il proprio assenso alla Rivelazione di Dio nelle parole e nei segni di Gesù” (p. 288).

 

Nella sua ricostruzione di come si è formata, presso i discepoli, la fede in Cristo, Vergote distingue tra “ciò che è storico, ciò che pertiene all’interpretazione retrospettiva operata dalla fede, le esplicazioni teologiche, le tracce dell’idealizzazione fatta dagli ammiratori, il prodotto dell’immaginario religioso che inventa miracoli a senso simbolico” (p. 273). Questa operazione, peraltro, poggia non tanto sul confronto dialogico con gli specialisti dell’esegesi e della teologia biblica, quanto piuttosto su un’interpretazione dei testi che coniuga insieme criteri psicoanalitici, letterari, linguistici, sociologici. Tale “studio obiettivo” basato sulle testimonianze dei primi discepoli, conduce ad una verità essenziale, quanto profondamente legata alla certezza soggettiva: “Dio si è rivelato, nella storia, come Dio, dapprima attraverso i profeti e poi in maniera definitiva in Gesù Cristo” (p. 287) Questa verità, ignota alle religioni umane e alla filosofia, appella alla fede come attitudine specifica e fondamentale del cristiano. Per il cristiano, la fede acquisisce uno statuto di verità. Ma, nella prospettiva di Vergote, essa introduce una cesura rispetto al percorso della ragione umana e il punto d’arrivo dell’antropologia filosofica. Per questo l’autore contesta la confusione, operata dal linguaggio comune ma anche da molti studiosi, che estende il termine “fede” ad ogni tipo di credenza, religiosa e non. Più in particolare, denuncia l’accorpamento del Cristianesimo tra le forme della “religiosità” universale, per cui “avere la fede” significa “avere un senso religioso”. Questo porterebbe ad un ecumenismo livellante e relativista che secondo Vergote, rappresenta la sfida maggiore del cristianesimo oggi (p. 290). Mentre la fede del cristiano in Dio ha una sua specificità irriducibile che anima tutta l’esistenza e nasce dal riconoscimento della autorivelazione di Dio come parola performativa. “La parola di Dio è creatrice di vita effettiva, sostanziale” (p. 294).

 

Sintesi di un pensiero consolidato, il libro di Vergote si presenta con una scrittura densa e solo apparentemente lineare e facile. In realtà, una buona comprensione del contenuto suppone la conoscenza del percorso teorico e delle posizioni già assunte dall’autore in diversi campi del sapere. Il confronto con le scienze umane e con la cultura contemporanea è costante, anche se il testo non si preoccupa di attestazioni confermative e di citazioni esornative. Vi si riscontra un’approfondita conoscenza della filosofia esistenziale, non meno che delle recenti acquisizioni della neurobiologia, dell’antropologia e della filosofia del linguaggio.

 

Sotto il profilo metodologico, il volume offre un esempio magistrale di come le scienze umane confluiscano nell’elaborazione sintetica di una antropologia filosofica ed anche teologica, tanto più utilmente quanto più rimangano fedeli ai loro propri principi epistemologici e metodologici, senza confusioni di approcci e punti di vista.

 

Numerose sono le tesi o le implicazioni del pensiero di Vergote che aprono (e appellano) al confronto con la riflessione teologica corrente. Solo per esemplificare, la sottolineatura del concetto del corpo psichico, strutturatosi a partire dal corpo libidinale, apre ad una visione della Resurrezione intesa non come restaurazione del corpo organico, ma come vita trasformata del corpo vissuto. Mentre la lettura fenomenologico e psicoanalitica che coglie l’ortogenesi del soggetto all’interno di una matrice relazionale intersoggettiva (sostenuta dal desiderio di essere amato, dal riconoscersi come oggetto d’amore e dall’amarsi attraverso l’amore dell’altro) potrebbe suggerire prospettive teoriche e pastorali coerenti con una visione della fede come adesione alla Parola, attraverso cui l’Altro si rivela come soggetto d’amore, irrompendo nella vita e nel desiderio dell’uomo. La fede così, non sarebbe vista come il prolungamento del desiderio umano (Vergote rifiuta la tesi del desiderio naturale di vedere Dio) ma come una parola performativa, ben radicate nelle strutture profonde dell’umano, ma sottoposta ad un lento e faticoso percorso di purificazione del desiderio.

 

Certamente Vergote è interessato, più che a singole questioni esegetiche o dogmatiche, alle tematiche fondamentali della strutturazione della fede cristiana. Una lettura critica del volume invita comunque ad istruire od approfondire alcune questioni di rilievo teologico, che non possono prescindere dal confronto con le scienze umane: l’opera di Vergote vi apporta spesso importanti contributi, ma ne indica anche la complessità e problematicità. Tra esse il concetto di ortogenesi del soggetto, nell’articolazione tra natura e cultura, ma anche tra salute e malattia mentale; l’origine della spiritualità-coscienza e i suoi rapporti con la corporeità (l’emergentismo non riduzionista, che sembrerebbe sotteso, non viene mai esplicitato dall’autore). Ricco di sviluppi sembra anche il modello dell’intersoggettività teologale, che si gioca nell’autorivelazione di Dio e nella fede del credente come atto di parola, nella filiazione adottiva, nella funzione strutturante del ruolo paterno. Inoltre, il volume rinnova antiche questioni: il rapporto tra ragione e fede e tra filosofia e teologia, le relazioni tra cristianesimo e religione e il tema del confronto tra esegesi biblica e risonanza soggettiva della Parola di Dio.

Recensione di Mario Aletti in Teologia. Rivista della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, 33(2008) 474-477